E’ difficile passare qualche ora in una grande città degli US senza essere impressionati dal numero di senzatetto. Seattle è purtroppo luogo noto per i problemi di homelessness, aggravati negli ultimi anni dalle difficoltà economiche e dallo svuotamento del centro a seguito dalla pandemia. Il problema non è negato, anzi è al centro della discussione politica e di investimenti non marginali (anche se insufficienti), ma la sensazione è che troppe discussioni partano con il piede sbagliato.
Da una parte, temo che per molti il problema dei senzatetto sia il disagio e il senso di insicurezza di chi li vede camminando per downtown, i.e una questione di decoro e ordine pubblico, e non il fatto che queste persone non hanno una casa.
Dall’altra, ci sono posizioni molto diverse su quanto l’homelessness sia prevalentemente dovuta a fattori individuali (perdita del lavoro, dipendenza, povertà) e quanto invece prevalgano cause di sistema.
Homelessness is a housing problem è un libro che mi ha aiutato a capire diverse cose e mi ha reso meno ignorante in materia.
Per me, come per molti, homeless era chi vive per strada; invece, le persone che vediamo dormire sui marciapiedi o in una tendina, i cosiddetti unsheltered homeless, rappresentano la situazione peggiore ma non la più frequente tra chi non ha casa, ché la maggior parte dei senzatetto vive in rifugi di emergenza e in situazioni temporanee. Negli US, circa i 2/3 degli homeless hanno un rifugio temporaneo, per quanto la situazione cambi molto da Stato a Stato, e con essa la percezione del problema: la California, per esempio, ha il 12% della popolazione USA, il 30% degli homeless e il 50% degli unsheltered homeless di tutti gli Stati Uniti. La distinzione non è accademica, perché identificare i senzatetto con gli unsheltered homeless causa errori di prospettiva sia sulle possibili cause sia sulle soluzioni.
Il titolo del libro dice quale sia per gli autori la causa principale di homelessness, anche se buona parte del testo è dedicata a dimostrare come altre ipotesi a loro avviso non reggano: per esempio, le aree più povere, o con più problemi di tossicodipendenza, o di malattia mentale, non sono quelle con più senzatetto. Anche l’idea per cui ci sarebbero ‘homeless magnets’, ovvero città che avendo politiche sociali più generose attirano gli homeless (“Vengono tutti da noi perché siamo troppo buoni”) è sconfessata da dati che mostrano come la stragrande maggioranza dei senzatetto siano originari della regione in cui si trovano a non avere casa. Per chi fosse interessato, il sito ha qualche grafico interessante.
La tesi di Aldern e Coburn è appunto che lo snodo sia il mercato della casa: in particolare, hanno più homeless le città in espansione e con mercati immobiliari rigidi, in cui (semplifico) si finisce in una situazione in cui c’è più competizione del solito a trovare un’abitazione e chi ci rimette sono le fasce svantaggiate. La povertà, le dipendenze, la disoccupazione, l’essere appena usciti di prigione etc. non vanno quindi viste come cause dell’essere senzatetto, ma come fattori di rischio.
Per intervenire sul problema è quindi prioritario investire in politiche abitative. Con quali livelli di investimento? Si stima che King County (la contea di Seattle) spenda per gli homeless circa 260 milioni l’anno (non tutti per trovare un’abitazione temporanea) e che dovrebbe spenderne tra il doppio e il quadruplo per cambiare davvero la situazione.
Ovviamente, la questione è economica ma anche politica: per esempio, da qualche anno c’è una programma nazionale, che pare stia andando bene, per ridurre i senzatetto tra i veterani e mi aspetto che i soldi non siano l’unico motivo per cui è stato approvato un provvedimento dedicato invece di uno generale.
Il mio amico Roberto Tricarico è un grande esperto di politiche abitative in Italia (e Europa).